giovedì 15 settembre 2016

Lettera agli insegnanti dei miei figli.

Cari insegnanti dei due marioli,
mi rivolgo a tutti voi, a quelle che conosco da 4 anni e ai nuovi che non ho avuto ancora il piacere di incontrare.
Quest'estate i miei figli hanno fatto i compiti.
Già.
Non è che abbiano cantato e ballato di gioia nel farli, soprattutto Emmegrande che era convinto che quest'anno sarebbe stato esonerato dall'obbligo, e quando ha scoperto che invece la nuova scuola consigliava degli esercizi di italiano, inglese e matematica per "tenersi in allenamento" un paio di accidenti gli sono usciti.
Che poi nessuno lo ha obbligato, ma ne abbiamo parlato e ha deciso che sì, poteva dedicare un po' di tempo a quelle paginette pubblicate sul sito della scuola, così per dare subito una buona impressione di sé ai nuovi insegnanti.
Ma hanno svolto il loro lavoro senza che poi fosse tutta 'sta croce, una mezz'oretta tre o quattro giorni alla settimana, il fine settimana i libri non si toccano, fino al primo di luglio manco voglio vedere una penna in giro e prima di Ferragosto tutto era stato finito.
Nonostante ciò siamo riusciti a vivere un'estate intensa e divertente. Certo, dei tre mesi alla fine di tempo ne rimane poco, il lavoro non permette di stare a casa per tutte le vacanze scolastiche, ma nei fine settimana e durante le vacanze di famiglia ne abbiamo fatte di cose.
Siamo andati in giro a piedi o in bicicletta, abbiamo visitato il safari park, siamo andati a al Pride.
Abbiamo fatto il bagno al mare e nel lago, abbiamo cantato canzoni stonate al karaoke e ballato la salsa e la bachata.
Abbiamo tirato con l'arco e con la pistola ad aria compressa, abbiamo fatto centri perfetti e cilecche epocali.
Abbiamo corso sotto i temporali e abbiamo strisciato sotto il sole rovente solo per il gusto di un gelato ai fichi e mandorle caramellate.
Abbiamo cenato a base di granita siciliana o di sushi.
Abbiamo visitato Pompei e i castelli aragonesi in Calabria.
Abbiamo urlato e tifato davanti alle gare olimpiche e paralimpiche.
Abbiamo giocato per ore a scala 40 e a Machiavelli.
Abbiamo vissuto nella maniera più intensa di cui siamo capaci, siamo stati bene.
Ma i compiti li hanno fatti.
Perché, cari insegnanti dei miei figli, se per nove mesi l'anno collaboriamo insieme per aiutare i ragazzi a crescere intellettivamente, emozionalmente e come cittadini, durante i tre mesi estivi l'onore e l'onere rimangono esclusivamente ai genitori, senza il vostro aiuto che è comunque prezioso, anche se a volte sì, ci sembra che i compiti a casa siano troppi, eccessivi, frustranti. Tanti, troppi venerdì ho pensato che sette frasi da analizzare, venti operazioni in colonna e già che ci siamo tre schede sul libro siano stati un carico eccessivo, ma mai mi sono permessa di dire "lascia perdere", perché famiglia e scuola collaborano e si aiutano, ma mai devono interferire una nelle competenze dell'altra. Che poi magari tra adulti ci si incontra e pacatamente si chiedono spiegazioni o si esprimono dubbi, magari ci si manda anche a stendere a mezza voce, ma davanti ai ragazzi i genitori non devono sminuire l'autorità degli insegnanti. "Te lo ha chiesto la maestra? Lascia perdere, ci penso io", e così facendo alleviamo una generazione che sarà completamente priva del senso del dovere e della responsabilità, che vivrà ogni regola come un optional da seguire se piace e se ne ha voglia, che sia un esercizio di matematica o un semaforo rosso da rispettare.
E quindi continuate pure a svolgere il vostro lavoro di insegnanti, io mi riservo il diritto di contattarvi se qualcosa non mi torna.
Continueremo a fare il nostro lavoro di genitori, chiedo fino da adesso scusa perché tra l'avviso sul diario "Comprare penna cancellabile arancione" e il momento in cui la penna arriva nell'astuccio passa quel periodo che finisce inesorabilmente nel "mamma se domani non porto la penna la maestra mi mette la nota", io ci metto tutto l'impegno ma i miei neuroni no, se avete qualcosa da dirci o contestarci siamo qui, ma pretendo che anche voi non mettiate mai in discussione la nostra figura davanti ai nostri figli.
Perché insegnare a vivere ai ragazzi è un lavoro duro, se non ci diamo una mano tra scuola e famiglia da duro il lavoro diventa impossibile.
Buon anno scolastico.

lunedì 8 agosto 2016

Di gap generazionale

Le mie prime quattordici estati sono state dedicate alla Versilia. La mia famiglia affittava una casa per tutto il mese di agosto al Lido di Camaiore e la partenza somigliava a un trasloco con tutte le regole.
Mio nonno aveva un amico che faceva il carbonaio, figura di notevole importanza nel Natio Borgo Selvaggio a cavallo tra la fine degli anni '60 e la metà dei '70, quando la maggior parte delle case si scaldava ancora con cucine economiche e stufe a carbone, al primo del mese i due soci partivano con il camion che durante l'inverno portava quintali di legname e di antracite caricato per l'occasione con biancheria, valige e scatole di vasellame e stoviglie. Le donne di casa mia son sempre state schizzinose, "non se ne giovavano" di mangiare con posate e piatti usati da chissà chi.
Noi li seguivamo con il pullman della Lazzi, che percorreva la Firenze-Mare fino a Lucca e poi si inerpicava su per i tornanti del Monte Quiesa valicando il tratto fino a Viareggio. Quando arrivavamo eravamo verdi per la nausea.
Erano gli anni in cui le ambizioni più elevate di noi bimbetti erano quelle di strappare cinque minuti alle fatidiche tre ore da trascorrere dopo ogni pasto, e per pasto si intendeva anche una caramella, prima di poter toccare l'acqua, e magari di poter trascorrere quei cinque minuti ancora a bagno nonostante le "dita ringrinzite", segno inequivocabile di congelamento fatale prossimo.
I castelli di sabbia non avevano ancora la pretesa di sembrare versioni in miniatura della Sagrada Familia ma erano essenzialmente torrioni a forma di tronco di cono ottenuti pressando la sabbia nei secchielli rossi o blu, ancora non decorati con il personaggio del cartoon più in voga, le piste per le biglie e le bocce completavano l'assortimento dei giochi da spiaggia.
Nascevano grandi amicizie e sgorgavano grandi lacrime al momento degli addii, a settembre due o tre cartoline viaggiavano da un posto all'altro della Toscana suggellando la promessa di ritrovarsi l'anno successivo.
E generalmente era così: ad agosto il paesello e buona parte della provincia di Firenze e della futura provincia di Prato si spostavano in massa tra Viareggio e il Lido di Camaiore, tutti abitudinari ogni anno si ritrovavano allo stesso stabilimento balneare, allo stesso ombrellone, alle 16.30 a prendere i bomboloni caldi al Cristallo o le pizzette appena sfornate al Manè, una sera alla settimana al cinema all'aperto di via del Fortino.
Nel 1980 mia madre dichiarò di essersi ufficialmente rotta le scatole di passare il mese di agosto a spignattare, pulire e riassettare ancorché a dieci minuti dalla spiaggia.
Il mese si ridusse a due settimane e ci buttammo a capofitto nella novità della riviera romagnola.
Quattordici anni da compiere a ottobre,
un posto completamente nuovo,
nessun compagno di classe, scuola, vicino di casa, amico dell'anno prima.
Poteva essere un disastro,
Ma capii qual'era la funzione degli adolescenti al mare:
arrivare sulla spiaggia, guardarsi intorno e decidere rispettivamente:
a) chi rimorchiare;
b) da chi farsi rimorchiare (con buona pace del gender, nel 1980 i ruoli maschili e femminili erano così definiti. A noi femminucce l'onere di decidere chi era il fortunato al quale avremmo concesso l'onore di credere di averci scelte).
Le grandi amicizie della costa tirrenica lasciarono il posto ai devastanti amori di Ferragosto, ai baci rubati dietro le cabine, ai ti-amerò-per-sermpre il cui sempre durava quanto la coda sulla a14 al ritorno.
E adesso, dopo avervi tediato con la palettata di ricordi e memorie triti e ritriti tipici di noi vecchietti nati a cavallo del boom economico, abbiate la compiacenza di aiutarmi a chiarire i miei dubbi.
Quegli anni sono stati bellissimi, vivevamo dai 335 ai 350 giorni l'anno nell'attesa che arrivassero le vacanze al mare. Le sognavamo, le gustavamo, le vivevamo intesamente dal primo giorno all'ultimo.
Le abbiamo narrate ai nostri figli compiacendoci delle conquiste fatte e commuovendoci sui lacrimevoli addii con quelli che credevamo amori eterni.
Ci hanno ascoltato dicendoci "che bello!".
Ci hanno preso per il culo, vero?
Perché altrimenti non si spiega perché Emmegrande e i suoi coetanei quando arrivano con il piede sulla sabbia invece di guardarsi intorno per trovare prede appetibili e costruirsi ricordi per il resto della loro vita la prima cosa che fanno è verificare se ci sia campo per il cellulare.
E mi reputo ancora privilegiata perché mio figlio non staziona sul bagnasciuga guardando il display a caccia di pokemon d'acqua.

domenica 10 luglio 2016

Il Principe e il Ballerino

Erano belli, eleganti, biondi, raffinati.
Il Ballerino passava con disinvoltura dal boogie - woogie al fox-trot, non disdegnando i valzer e le polke ed era un ottimo tangueiro, Fred Astaire di paese compagno di danze ideale di tutte le ragazze perché educato e mai volgare. Il Principe aveva una bella voce melodica, un paio di 45 giri che avevano raggiunto un piazzamento in hit parade e una discreta notorietà locale, una garanzia di successo per le feste di piazza e le serate in balera.
Il Principe e il Ballerino si amavano, e non era facile essere gay nei paesini degli anni 50.
Si fa ma non si dice, tutti sanno ma fanno finta di non sapere.
"O come mai tuo figlio, che è un bel giovane, non si sposa?"
"Che vuoi, gli garba cambiare..."
Si fa ma non si dice, ma senza dirlo sono stati insieme per quasi cinquant'anni.
Il Principe sognava successi nazionali e cantava in balera, il Ballerino aveva un ottimo impiego in banca e gli lasciava rincorrere i suoi sogni, tanto quello che guadagnava bastava per entrambi.
Invecchiarono, il Principe continuava a sognare e il Ballerino lo accompagnava sorridendo, una buona pensione dopo tanti anni di lavoro, la casa lasciata dai genitori, la spesa al supermercato per la settimana.
Lo incontravo spesso, ancora biondo nella barba ma bianco nei capelli, gli occhi chiarissimi e vivaci, "ma come sei bellina, mi par di vedere la tua mamma alla tua età. Che balli bene come lei?"
"Macché! Io sono un palo della luce... La mamma ballava bene, me lo dice sempre di quando andavate al dancing di nascosto dal nonno"
"E la volta che si andò a vedere Dorelli, che le strinse la mano e lei non se la voleva più lavare... Che ridere!"
E tornava dal suo principe con le borse della spesa.
Il Ballerino se n'è andato. Il Principe è rimasto solo. Per la legge è sempre stato solo. Per la legge non aveva una famiglia, non ha diritti se non quello di piangere il compagno di una vita.
Ieri la Sbullofamily era al Torino Pride, e io ho pensato tanto al Principe e al Ballerino, a quanto gli sarebbe piaciuta la festa, la musica, i colori, finalmente avrebbero potuto smettere di nascondersi.
Perché quello che porta gioia, allegria, convivialità, sorrisi, non può essere sbagliato.
L'amore non è mai sbagliato, i diritti non sono mai da negare quando non sono lesivi della libertà e della vita altrui.
L'Italia è cresciuta abbastanza da riconoscere il diritto a ogni Ballerino e a ogni Principe innamorati di essere chiamati famiglia, è ora che chi è rimasto indietro si adegui.
E diciamo addio al medioevo, una volta per tutte.

giovedì 7 luglio 2016

Il momento di uccidere

Una volta, eravamo ancora fidanzati, ero su un treno con il mio futuro marito. Accanto a noi una ragazza nera, seduta tranquillamente al suo posto. Alla stazione di Porta Susa salì un gruppetto di ultrà - sì, erano proprio ultrà, stavano andando alla partita della Juventus a Milano - e si accanì contro di lei chiamandola scimmia, puttana di merda. La ragazza si alzò e provò a replicare, il capogruppo la spintonò urlandole che l'avrebbe fatta volare dal finestrino. Intervenne mio marito parecchio incazzato, chi lo conosce sa che può fare tanta paura... Ma il capoultrà non si scompose, ci chiamò comunisti di merda e, alla stazione di Chivasso, andò dal capotreno protestando che mio marito LO STAVA PRIVANDO DELLA FACOLTA' DI ESERCITARE UN PROPRIO DIRITTO. Lo stava privando del "diritto" di considerare inferiore un essere umano, del disporre della vita altrui come se fosse un giocattolo, un accessorio che non mi piace e allora lo rompo, un programma tv che non sopporto e allora spengo tutto. Lo stava privando del diritto di essere un delinquente fascista, nazista e razzista.
Del momento di uccidere.
A proposito, qualcuno dice che quello è un pessimo film retorico e mal recitato.
Ma la scena finale mi stende ogni volta.
Immaginate un ragazzo, gli uccidono il padre, la madre, il figlio di due anni.
Gli distruggono la casa e lui decide di fuggire dalla sua terra, con sua moglie.
Durante la fuga perdono il bambino che attendono, ma arrivano in un altro paese che credono amichevole.
Trovano aiuto, un rifugio, si credono al sicuro.
Poi arriva un tizio qualunque e decide che non devi stare al mondo, fine, kaputt, game over.
Immaginate le botte, il dolore, sentire che te ne stai andando ma hai ancora tanto da dire, da fare, da dare.
Immaginate sua moglie che assiste alla scena, vede l'unico affetto che le è rimasto massacrato e sa che sta rimanendo sola, sola del tutto, nel modo più crudele.
Sentite anche il suo di dolore, lo strazio, le urla che piano piano si fanno più fioche perché inutile.
Ascoltate il suo pianto, il suo appello accorato a un Dio che si era distratto perché prenda anche lei, che sola non ci può più stare.
Immaginate tutto questo, immaginate di essere loro.
E adesso immaginateli bianchi.

mercoledì 22 giugno 2016

Il giorno dopo la notte prima degli esami

A settembre saranno trascorsi tre anni da quando hai varcato per la prima volta il cancello della scuola media.
Oggi ne uscirai per l'ultima volta, dopo l'esame.
E se chiudo gli occhi mi sembra ieri, quando li riapro è passata un'eternità che mi ha portato via quel bambino timido, paffuto e insicuro per restituirmi un adolescente lungo e magro.
Ripenso al terrore nei tuoi occhi in quel primo giorno, la paura di tutto ciò che era nuovo.
Nuova scuola, nuovi compagni, nuovi insegnanti, nuove materie, e ricordo l'enorme lampo di sollievo quando, tra i nomi di quelli che avrebbero condiviso con te il nuovo percorso, fu annunciato quello del tuo amico da sempre, del tuo socio. Una continuità con quello che era stato, una figura amica per sentirti meno solo.
A dire il vero quando venni a riprenderti all'uscita ebbi immediata la tentazione di andare dalla preside e chiederle di rendermi il mio bimbo, ché quello che era uscito da quel cancello non eri più tu.
"Cosa ci fai qui, mamma? Torno a casa a piedi con i miei amici, vai pure!".
No, non è stato facile.
Non è stato per niente facile.
Dal doverti dare le chiavi di casa perché al ritorno spesso non avresti trovato nessuno se non un pasto pronto da scaldare nel microonde;
dal doverti concedere un cellulare per qualsiasi evenienza, che papà e mamma al pomeriggio non ci sono e rendersi conto dopo mezza giornata che l'evenienza più urgente era scaricare il nuovo videogame o stare per ore in chat con i tuoi amici;
dal doverti urlare dopo nemmeno una settimana QUESTA CASA NON E' UN ALBERGO, non sono cambiate le regole perché adesso hai i professori invece che le maestre.
E poi la terrificante classe del primo anno, che continuo a pensare sia stato uno sciagurato esperimento sociale da parte della dirigenza scolastica, la tua tendenza a frequentare sempre i compagni più scalmanati perché più simpatici, i colloqui con i professori che sì, il ragazzo ha un'intelligenza brillante e indubbie capacità ma tende a fare sempre il minimo.
I professori sempre nuovi, sempre diversi, quella di matematica che tanto doveva andare in pensione e chissene e quella di italiano del secondo anno, bella, giovane, solare, sempre disponibile, sempre attenta, sempre empatica e coinvolgente. Ti ha fatto amare la letteratura italiana, ti ha fatto capire che potevi capire.
E poi studia, molla quel cellulare, molla quel joystick, guarda che quando torno ti interrogo, è possibile che tutti alle medie si ammazzino di compiti e tu non hai mai un cazzo da fare?
Però i voti sono buoni, a parte qualche picchiata in discesa quando proprio non ti sei ricordato della verifica, la sensazione di parlare sempre e comunque al vento.
Sei uscito stamani per andare a sostenere l'esame corale di musica, oggi pomeriggio avrai l'orale. Io sono terrorizzata e ansiosa, tu no. Ti sei lavato-profumato-pettinato e ben vestito, devi fare buona impressione fino da subito, hai indossato la tua migliore faccia da schiaffi e te ne sei andato sorridendo.
Dov'è andato il mio bambino pieno di dubbi?
Non lo so, ma so che è meglio così.
Non sei cambiato solo fisicamente, le scuole medie continuano a sembrarmi poco utili didatticamente ma senza dubbi sono state fondamentali per la tua crescita come persona e non sai quante volte la persona che sei diventato mi ha reso orgogliosa. Certo, non quando hai fatto flanella rimediando stupide insufficienze in materie in cui non hai mai avuto problemi (tanto rimedio alla prossima verifica), non quando hai riportato sul diario altrettanto stupide note per esserti dimenticato a casa il libro, il quaderno, il materiale, talora la testa.
Ma quando hai sostenuto a testa alta le discussioni sui temi di attualità, smontando punto dopo punto le tesi dei tuoi compagni razzisti, omofobi, misogini;
quando unico in classe hai dimostrato di conoscere le storie di Malala e di Peppino Impastato, di Falcone e Borsellino;
ogni volta che un professore mi ha detto che da te si aspettava grandi cose, che avevi grandi opportunità, che potrai arrivare ovunque tu decida di andare,
purché tu lo voglia.
A settembre nuovo giro, nuova corsa, nuova scuola, nuovi compagni.
Pensieri? Per me un milione, per te sembra meno di zero. 
Ti senti cresciuto, ti senti grande, avrai tempo per renderti conto che di strada ne devi fare ancora tanta, quasi tutta in salita, ma hai gambe forti e un bel cervello, ce la farai.
Purché tu lo voglia.
E adesso goditi l'estate più bella della tua vita, quella senza compiti, quella senza pensieri, quella che sì, ricomincia un ciclo nuovo ma la vita adulta è ancora lontana, almeno altri cinque anni.
E nel mio orgoglio per l'uomo che stai diventando, che adesso chiamo a gran voce quando ho bisogno di prendere i barattoli sugli scaffali più alti della cucina, continuo a ricercare il bimbo paffuto e timido che le scuole medie mi hanno portato via.
Ogni tanto lo ritrovo in un abbraccio, anche se adesso a posare la testa sulla sua spalla sono io, perché lui è ben più alto di me.

martedì 31 maggio 2016

Arrosto che non ti tocca

Nella ridente cittadina costiera c'è un modo di dire: "Arrosto che non ti tocca lascia che bruci".
La prima volta l'ho sentito da una ridente massaia ben accomodata sotto l'ombrellone. Una di quelle sessantaepassaenni con il costume corazzato, che all'origine è stampato a nontiscordardime che una volta indossato diventano peonie.
Una di quelle belle matrone che ispirano istintivamente simpatia, caciarona, ridanciana, dall'aspetto materno.
A una vicina di sdraio sembrava fosse sparito il portafoglio dalla borsa e, poveraccia, era disperata non tanto per i venti euro che conteneva quanto per i documenti, il bancomat, queste cose qui, insomma.
E la ridente matrona, di sotto il palmo della mano, mi disse che sì, lei aveva visto quel vucumprà che passava proprio dietro a quell'ombrellone, ma in questi casi è meglio stare zitti. Arrosto che non ti tocca lascia che bruci.
Non sono affari miei,
non mi riguarda,
perché metterci il naso?
Tra parentesi, il portafoglio uscì fuori dopo pochi minuti. Il nipote della proprietaria se ne era appropriato per comprarsi il gelato. Giurò di averlo detto alla nonna e che questa era mezza sorda e non aveva sentito.
Magari è vero ma magari no.
Arrosto che non ti tocca lascia che bruci.
E' da ieri che queste poche parole mi tornano in mente, da quando a bruciare è stata una ragazza poco più che ventenne, l'ennesimo femminicidio, l'ennesimo fidanzato geloso e possessivo, l'ennesimo atto di violenza estrema per un rifiuto, per un basta, per un non ne posso più, non ti voglio più, è finita.
Solo che questa volta qualcuno ha visto, qualcuno ha sentito le urla di aiuto, qualcuno ha notato quella ragazza che si sbracciava, ma ha tirato dritto.
Eh, ma son ragazzi, non avranno capito,
cosa c'è da capire? Se una ragazza corre sbracciandosi e gridando ha bisogno di aiuto
Sì, ma avete presente che zona è quella? Cè da aver paura a fermarsi!
Sì, ma bastavano tre cazzo di cifre sul cellulare. 1 1 3
Ma tanto le forze dell'ordine non sarebbero arrivate in tempo.
E se ci fosse stata una pattuglia in zona? E se invece fossero arrivate in tempo?
E comunque anche se fossero arrivate figurati, sarebbero stati capaci di arrestare che le ha chiamate, gli avrebbero detto di farsi gli affari suoi, ancora ancora se ti impicci di prendi una denuncia tu per diffamazione.
Insomma, arrosto che non ti tocca lascia che bruci.
Anche se l'arrosto ha i capelli biondi e il sorriso dolce di una ragazza di poco più di venti anni.

lunedì 23 maggio 2016

Comunque madre

Che io sia una credente all'acqua di rose è cosa nota e risaputa. Che cerchi di andare d'accordo con Dio ma che ci vada molto meno con la chiesa altrettanto.
Ma i battesimi mi piacciono.
E sì, lo so che si impone a un bambino una fede che ancora non è in grado di capire e che dovrebbe essere lui a scegliere quando è in grado di farlo e che eccetera eccetera, ma mi piacciono perché secondo me sono la celebrazione di una vita che comincia, quando tutto ancora è da scrivere e da inventare.
Perché amo quei pupattoli infiocchettati che guardano il parroco con l'espressione "'zzo vuoi tu da me?" e sgranano gli occhi quando gli arriva quella goccia di acqua benedetta sulla testa a volte manifestando il loro dissenso con vocalizzi indignati.
Perché in ogni vita che comincia, oltre all'incontro di un ovocita e di uno spermatozoo, e la morula e la blastula e l'embrione, e una pancia che cresce fino a diventare ingombrante e al limite della sopportabilità, e le nausee e i piedi che diventano palloncini continuo a vedere un po' di magia, o di divino per chi preferisce.
E mentre il festeggiato spalanca gli occhi davanti alla fiammella della candela che suo padre tiene in mano io guardo quei due mostriciattoli seduti vicino a me e ricordo quando erano loro a passare dalle braccia del padrino a quelle della madrina altrettanto orgogliosi e mi sento fortunata, nonostante le notti bianche, le crisi dell'adolescenza, le stanze mai in ordine invase da minutissimi pezzi di lego e carte di caramelle nascoste nelle fodere dei cuscini del divano.
E poi penso a te, e anche se non ti vedo vedo il fondo lucido dei tuoi occhi.
Perché ti hanno detto che madre non lo diventerai, almeno non adesso, almeno non con le vie naturali.
Perché forse, possiamo provare, possiamo tentare, c'è una terapia, c'è una cura, ma non si sa, non si faccia illusioni, le speranze sono poche.
Ma tu sei madre quanto me.
Sei madre di mille pensieri, di mille speranze, di mille ritardi e di mille lacrime su una macchia di sangue.
Sei madre di mille tentativi, di mille sogni e di mille nomi da maschio o da femmina.
Sei madre di mille momenti di rabbia, perché a lei sì e a me no? Perché a quelle che li lasciano nei cassonetti o li vendono, a quelle che li trascurano, a quelle assassine e a me no?
Madre di mille bambini, perché a tutti quelli che incontri, a tutti i figli delle tue amiche che tieni in braccio, continui a rubare un colore degli occhi, un'espressione, la piega del sorriso o della smorfia che vorresti ritrovare nel tuo.
Sei mamma anche un po' dei miei figli, che guardi con gli occhi a forma di cuore e quanto sono belli, quanto sono cresciuti, quanto sono simpatici.
E mentre tutti pregano per il piccolo festeggiato il dedico il mio pensiero a te, che da madre dei pensieri lo diventi di cuore.
Grazie alla scienza, alla biologia, alla fortuna o a una carta bollata che tu riesca prima o poi a vedere quel sorriso, quel ricciolo così strano, in una creatura che ti chiami mamma, e che crescendo si renderà conto di quanto sarà fortunata ad averti come madre.