Io mi ammalo raramente.
Cioè, per essere più corretti mi ammalo con la stessa frequenza degli altri comuni mortali, solo che il più delle volte faccio finta di niente.
Perché se accetto di avere il raffreddore, la febbre, lo squaraus o il virus significa che mi devo dar malata al lavoro, e se mi do malata poi devo stare agli arresti domiciliari, perché i dipendenti pubblici non hanno la reperebilità dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 20 come tutti gli altri lavoratori, ma dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18, quindi se sono a casa in mutua non posso uscire nemmeno imbottita tipo bibendum e dopata di paracetamolo per andare a recuperare Emmepiccola a scuola ma devo stare sempre a disposizione del fantomatico medico fiscale che potrebbe venire a verificare se sono una fancazzista o effettivamente fuori uso.
E quindi finché posso reggo, e finché posso significa finché ho un bagno a disposizione, la febbre inferiore a 38 (a volte anche 38.5) o finché me la cavo con una quantità di fazzoletti di carta tutto sommato trasportabile in borsa.
Altra ragione perché non mi "ammalo" mai è che avere un certificato di malattia dal mio medico di base è un'avventura che nemmeno Salgari avrebbe potuto immaginare.
Innanzitutto non crediate che l'Anto, medico e amica della FamigliaSbullonata, sia uno di quei medici che cura e certifica per telefono, se la chiamo dicendo "Anto, ho un giradito, mi prescrivi una pomata?" lei pretende che vada nel suo studio, mi faccia le canoniche due ore di coda anche se ho un appuntamento, visita il dito, la mano, il braccio, l'ascella e l'apparato respiratorio e già che c'è misura anche la pressione e le pulsazioni. Fino ad adesso ho evitato l'esame rettale ma credo che sia stata solo forutna. Idem se le telefono dicendo "Anto, questa notte sono stata male, mi fai un certificato di mutua per oggi?". La prassi è la stessa: ambulatorio, visita, certificazione. E ogni volta da il minimo sindacale, sul genere che se ti presenti da lei stremato e con 40° di febbre la frase è sempre la stessa: intanto di do tre giorni, se poi non ti passa torni e ti faccio un altro certificato. Capirete che finché gliela faccio evito di mettermi assente per malattia, mi stanco meno e mi curo meglio se vado al lavoro.
Ma ieri proprio non ce l'ho fatta. Il raffreddore che stavo cercando bellamente di ignorare e che tra discese ardite e risalite mi sta tormentando da quasi tre settimane ha approfittato di un mio attimo di distrazione e mi ha dato il colpo di grazia. Adesso viaggio al ritmo di 40 starnuti al minuto con un rotolo di carta cucina in tasca al posto dei kleenex e il naso color borgogna. Visto che nel mio ufficio non c'è nemmeno il termosifone (non scherzo, sopravvivo con una stufetta elettrica sotto la scrivania) e dagli spifferi della porta passano i pitoni e considerata la felice casualità che fa sì che mio marito riesca ad andare a prendere Emmepiccola a scuola per tre giorni di fila ho deciso di curarmi a modino.
Quindi chiamo la solerte segretaria del mio medico per avere il ceritificato. Lo sa che la dottoressa la vorrà visitare, vero? Lo so, lo so... Guardi, la avverto che venga prima solo per lei, si presenti alle 15.40 in studio. Presentarsi alle 15.40 in studio significa uscire di casa alle 14.40, farsi una bella camminata per andare a prendere il bus e 45 minuti buoni di tragitto cittadino perché pensare di addentrarsi in quel caotico quartiere in macchina significa poi dover farsi prescrivere un controllo psichiatrico.
Qaundo arrivo la sala d'attesa è gremita dagli stessi vecchietti che ci sono ogni volta, che a volte credo che vivano in studio e si cucinino i pasti dietro quella misteriosa porta con il segnale di divieto d'accesso che da anni mi chiedo cosa celi.
Faccio per avvicinarmi al bancone della segretaria ma prima che abbia fatto in tempo a dire buongiorno un vecchietto dalle retrovie piomba minaccioso davanti a me tuonando "Sono arrivato prima io! Nessuno mi ha detto che dovevo prendere il numero!!!!" la segretaria lo tranquillizza, nessun numero, la dottoressa ha una lista di appuntamenti e chiama per nome. "Eh, perché io sono qui da un bel po'!" Sì, penso io, probabilmente da quando ancora c'era Prodi alla presidenza del Consiglio.
Comunque mi siedo, comincio a leggere il libro che mi sono portata dietro (Una ragazza per la notte - Corrado Augias, un bel giallo che vi consiglio) e tengo il tempo con i miei soliti 40 starnuti al minuto. Premetto che ogni volta che starnutisco mi volto verso il muro e mi copro la bocca con la mano. Sono una personcina beneducata, io. Alla terza raffica le due vecchiette sedute davanti a me cominciano a dare segni di impazienza. Confabulano tra loro che una viene dal medico che sta bene e corre il rischio di uscire con tutte le magagne del mondo, mi guardano in cagnesco e mi aspetto che da un momento all'altro comincino a inveire "Dagli all'untore!". Mi astengo dal domandare loro perché, se stanno bene, siano nella sala di attesa di uno studio medico solo perché la quarta raffica me lo impedisce. Il medico apre la porta dello studio e si alzano contemporaneamente in quattro, viene chiamato il nome di un vecchietto vispo e baldanzoso che guadagna l'ingresso con espressione di trionfo mentre gli altri tre si siedono scornati borbottando congetture sul fatto che fossero arrivati prima loro. La stessa scena si ripete invariabilmente ogni volta che il medico chiama il paziente successivo, sembra di essere alla finale di Miss Italia: "Signora Pautasso, avanti è il suo turno!" "Ecco, lo dicevo che quella è una raccomandata, chissà con chi è andata a letto per passare per prima!".
Sono in attesa da oltre un'ora quando, all'enesima apertura di porta e al conseguente scatto in piedi questa volta di due vecchiette e un ottuagenario con una valigia piena di cartelle cliniche, il medico mormora un nome che li lascia sconcertati perché non appartiene a nessuno di loro. La dottoressa si volta nella mia direzione e mi apostrofa, Ale, sei sorda? Ho chiamato te! Mi alzo mentre la voce della stessa vecchietta che temeva le attaccassi la peste polmonare strepita che insomma, lei è qui dalle due e mezza! La dottoressa, placida, le chiede il perché, visto che l'appuntamento lo aveva per le quattro
Comunque dopo la consueta visita completa e la concessione di tre giorni di mutua - se poi stai ancora male torna che te ne do altri - faccio per uscire e trovo il vecchietto ottuagenario che sta usando il montascale per scendere occupando tutto il passaggio e procedendo alla velocità di due metri l'ora. Attendo con pazienza che abbia compiuto tutto il tragitto e lo vedo, una volta raggiunto il pianterreno, balzare in piedi con scatto da felino e uscire per infilarsi direttamente nel bar di fronte.
Dove, probabilmente, sta ancora litigando al bancone per stabilire chi è arrivato per primo.
Cioè, per essere più corretti mi ammalo con la stessa frequenza degli altri comuni mortali, solo che il più delle volte faccio finta di niente.
Perché se accetto di avere il raffreddore, la febbre, lo squaraus o il virus significa che mi devo dar malata al lavoro, e se mi do malata poi devo stare agli arresti domiciliari, perché i dipendenti pubblici non hanno la reperebilità dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 20 come tutti gli altri lavoratori, ma dalle 9 alle 13 e dalle 15 alle 18, quindi se sono a casa in mutua non posso uscire nemmeno imbottita tipo bibendum e dopata di paracetamolo per andare a recuperare Emmepiccola a scuola ma devo stare sempre a disposizione del fantomatico medico fiscale che potrebbe venire a verificare se sono una fancazzista o effettivamente fuori uso.
E quindi finché posso reggo, e finché posso significa finché ho un bagno a disposizione, la febbre inferiore a 38 (a volte anche 38.5) o finché me la cavo con una quantità di fazzoletti di carta tutto sommato trasportabile in borsa.
Altra ragione perché non mi "ammalo" mai è che avere un certificato di malattia dal mio medico di base è un'avventura che nemmeno Salgari avrebbe potuto immaginare.
Innanzitutto non crediate che l'Anto, medico e amica della FamigliaSbullonata, sia uno di quei medici che cura e certifica per telefono, se la chiamo dicendo "Anto, ho un giradito, mi prescrivi una pomata?" lei pretende che vada nel suo studio, mi faccia le canoniche due ore di coda anche se ho un appuntamento, visita il dito, la mano, il braccio, l'ascella e l'apparato respiratorio e già che c'è misura anche la pressione e le pulsazioni. Fino ad adesso ho evitato l'esame rettale ma credo che sia stata solo forutna. Idem se le telefono dicendo "Anto, questa notte sono stata male, mi fai un certificato di mutua per oggi?". La prassi è la stessa: ambulatorio, visita, certificazione. E ogni volta da il minimo sindacale, sul genere che se ti presenti da lei stremato e con 40° di febbre la frase è sempre la stessa: intanto di do tre giorni, se poi non ti passa torni e ti faccio un altro certificato. Capirete che finché gliela faccio evito di mettermi assente per malattia, mi stanco meno e mi curo meglio se vado al lavoro.
Ma ieri proprio non ce l'ho fatta. Il raffreddore che stavo cercando bellamente di ignorare e che tra discese ardite e risalite mi sta tormentando da quasi tre settimane ha approfittato di un mio attimo di distrazione e mi ha dato il colpo di grazia. Adesso viaggio al ritmo di 40 starnuti al minuto con un rotolo di carta cucina in tasca al posto dei kleenex e il naso color borgogna. Visto che nel mio ufficio non c'è nemmeno il termosifone (non scherzo, sopravvivo con una stufetta elettrica sotto la scrivania) e dagli spifferi della porta passano i pitoni e considerata la felice casualità che fa sì che mio marito riesca ad andare a prendere Emmepiccola a scuola per tre giorni di fila ho deciso di curarmi a modino.
Quindi chiamo la solerte segretaria del mio medico per avere il ceritificato. Lo sa che la dottoressa la vorrà visitare, vero? Lo so, lo so... Guardi, la avverto che venga prima solo per lei, si presenti alle 15.40 in studio. Presentarsi alle 15.40 in studio significa uscire di casa alle 14.40, farsi una bella camminata per andare a prendere il bus e 45 minuti buoni di tragitto cittadino perché pensare di addentrarsi in quel caotico quartiere in macchina significa poi dover farsi prescrivere un controllo psichiatrico.
Qaundo arrivo la sala d'attesa è gremita dagli stessi vecchietti che ci sono ogni volta, che a volte credo che vivano in studio e si cucinino i pasti dietro quella misteriosa porta con il segnale di divieto d'accesso che da anni mi chiedo cosa celi.
Faccio per avvicinarmi al bancone della segretaria ma prima che abbia fatto in tempo a dire buongiorno un vecchietto dalle retrovie piomba minaccioso davanti a me tuonando "Sono arrivato prima io! Nessuno mi ha detto che dovevo prendere il numero!!!!" la segretaria lo tranquillizza, nessun numero, la dottoressa ha una lista di appuntamenti e chiama per nome. "Eh, perché io sono qui da un bel po'!" Sì, penso io, probabilmente da quando ancora c'era Prodi alla presidenza del Consiglio.
Comunque mi siedo, comincio a leggere il libro che mi sono portata dietro (Una ragazza per la notte - Corrado Augias, un bel giallo che vi consiglio) e tengo il tempo con i miei soliti 40 starnuti al minuto. Premetto che ogni volta che starnutisco mi volto verso il muro e mi copro la bocca con la mano. Sono una personcina beneducata, io. Alla terza raffica le due vecchiette sedute davanti a me cominciano a dare segni di impazienza. Confabulano tra loro che una viene dal medico che sta bene e corre il rischio di uscire con tutte le magagne del mondo, mi guardano in cagnesco e mi aspetto che da un momento all'altro comincino a inveire "Dagli all'untore!". Mi astengo dal domandare loro perché, se stanno bene, siano nella sala di attesa di uno studio medico solo perché la quarta raffica me lo impedisce. Il medico apre la porta dello studio e si alzano contemporaneamente in quattro, viene chiamato il nome di un vecchietto vispo e baldanzoso che guadagna l'ingresso con espressione di trionfo mentre gli altri tre si siedono scornati borbottando congetture sul fatto che fossero arrivati prima loro. La stessa scena si ripete invariabilmente ogni volta che il medico chiama il paziente successivo, sembra di essere alla finale di Miss Italia: "Signora Pautasso, avanti è il suo turno!" "Ecco, lo dicevo che quella è una raccomandata, chissà con chi è andata a letto per passare per prima!".
Sono in attesa da oltre un'ora quando, all'enesima apertura di porta e al conseguente scatto in piedi questa volta di due vecchiette e un ottuagenario con una valigia piena di cartelle cliniche, il medico mormora un nome che li lascia sconcertati perché non appartiene a nessuno di loro. La dottoressa si volta nella mia direzione e mi apostrofa, Ale, sei sorda? Ho chiamato te! Mi alzo mentre la voce della stessa vecchietta che temeva le attaccassi la peste polmonare strepita che insomma, lei è qui dalle due e mezza! La dottoressa, placida, le chiede il perché, visto che l'appuntamento lo aveva per le quattro
Comunque dopo la consueta visita completa e la concessione di tre giorni di mutua - se poi stai ancora male torna che te ne do altri - faccio per uscire e trovo il vecchietto ottuagenario che sta usando il montascale per scendere occupando tutto il passaggio e procedendo alla velocità di due metri l'ora. Attendo con pazienza che abbia compiuto tutto il tragitto e lo vedo, una volta raggiunto il pianterreno, balzare in piedi con scatto da felino e uscire per infilarsi direttamente nel bar di fronte.
Dove, probabilmente, sta ancora litigando al bancone per stabilire chi è arrivato per primo.